Pasqua Pezzaga, l’imprenditrice in smart working senza computer

“Ho sempre lavorato così”, svela la co-fondatrice di un’azienda nel bresciano. Storia di un feeling mai nato

Lavorare in smart working oggi, in piena quarantena, è condizione generalizzata. Farlo da titolare e co-fondatrice di un’azienda nata cinquant’anni fa (più qualche mese), senza computer, senza internet, senza mail, quindi senza niente secondo i più, ci parla del senso avventuroso di questa storia. Una storia la cui protagonista, Pasqua Pezzaga, la racconta come se quelli strani fossero gli altri. «A me basta una calcolatrice, i documenti, il materiale che mia figlia Cinzia mi stampa dal computer e poi trasferisco tutto sulle mie cose, le mie schedine». Schedine, quadernetti, chiamiamoli come vogliamo. Sta di fatto che «in qualsiasi momento della giornata ti so dire il saldo delle banche, i pagamenti e così via. Una cosa normalissima. Basta essere attenti. Io con i quadernetti vado anche in banca e sapesse quanti direttori di banca ho messo a posto». Lo scorso ottobre Pasqua e Giancarlo Viganò hanno festeggiato in grande stile il mezzo secolo dell’azienda, Zincature Industriali Srl. Ha sede a Cazzago San Martino, nel Bresciano, mica zona facile, di questi tempi. Per la cronaca, Giancarlo è suo marito, ma in questa storia contano solo i cognomi. Perché loro, al lavoro, si chiamano così. Questione di professionalità. «Quando chiamano in azienda e cercano lui, io dico “le passo Viganò”. Così fa Giancarlo».

Tornando ai computer, il feeling non è mai sbocciato. «Mi hanno sempre disturbato. Quando facemmo il contratto per l’acquisto dell’attrezzatura rischiammo di far saltare tutto. “Ci sono persone meno preparate di lei che lo usano”, mi disse il venditore. Risposi che se voleva darmi della retrograda poteva anche andarsene. Conosco le mie capacità. Viganò invece lo prese. Ci provò. Dopo un po’ lo donammo alla Croce Verde di Ospitaletto».

Lei e Viganò sono soci a metà «ben distinti. Lui pensa alla produzione, io all’amministrazione. E per fortuna, altrimenti non so come sarebbero andate le cose!». Cinquant’anni di storia, tra alti e bassi, tante lotte, «ma mi sono tutto sommato gratificata. E se nessuno mi dice “brava” ci penso io a battermi la mano sulla spalla. Sono del Toro, niente bla bla bla». Origini modeste in una famiglia dove se avanzava un piatto di minestra lo si condivideva con chi aveva meno «perché era una cosa fatta bene», poi l’Istituto Tecnico Commerciale in collegio come ripiego – «volevo fare l’Istituto per Geometri, ma il femminile non c’era. Sono sempre stata anomala…» – e la felice intuizione che sapendo l’inglese e il francese avrebbe avuto maggiori sbocchi professionali. E così fu. Prima come dipendente, poi come titolare. Ma certo, «se fossi nata 10, 15 anni dopo sarebbe stato diverso. Sarei anche entrata in politica, io. Non nel Pci di quegli anni, piuttosto per un ideale di socialismo non totalitario. Mio padre ha avuto anche una breve storia partigiana, siamo sempre stati così, in famiglia».

Come nacque la storia della zincatura? «Viganò aveva avviato un’azienda di portabagagli e portasci con un altro socio. Avevano sempre bisogno di zincare, ma ciò comportava un costo finanziario troppo alto. Da lì ci è venuta l’idea e siamo partiti». Tra alti e bassi e lotte per affermarsi, lei, donna, l’azienda cresceva. Fino a una di quelle battute d’arresto che ti fanno vacillare sul che fare in futuro. Un venerdì 17 (poi uno dice il caso), quello di febbraio 2012, Pasqua non lo scorderà più. «Ci chiamarono i pompieri, andammo subito sul posto e da 7, 8 chilometri notammo una nuvola di fumo tremenda. Un incendio. Viganò sbiancò subito. Il pompiere, vedendolo così disse di lasciar passare il momento. Gli dissi di darmi il casco, entrai, vidi bruciare tutto. Fuori dal cancello gli operai piangevano. Ma cosa vuoi risolvere piangendo? Parlammo con le nostre figlie e nostro nipote che intanto era entrato in azienda. Dicemmo: noi potremmo anche fermarci qui. Di comune accordo ricominciammo» Superarono anche questa.

E adesso il Coronavirus. La reazione è un’altra delle sue. «Fasciarsi la testa non serve e niente. Intanto, prepariamoci ad uscire bene da questo periodo. Siamo tutti nella stessa barca, a parte i delinquenti e quelli che hanno sempre rubato. Mi auguro di tornare al lavoro a maggio». La sua Brescia? «Sono un po’ demoralizzata dal comportamento che hanno tenuto nei confronti della mia città. La Regione ci ha un po’ trascurato. Forse siamo troppo “periferici”, di serie B. Tutti ci siamo dati da fare, ma forse dovevamo e dovremmo essere un po’ più drastici. Invece i bresciani devono sempre lavorare, lavorare, lavorare…».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *