LinkedOut, il colloquio come il luogo del non detto

E arriviamo qui, al momento di incontro tra recruiter e candidato/a. Il colloquio dovrebbe essere un momento conoscitivo, per entrambi/e. Il/la candidato/a dovrebbe conoscere l’azienda, la mansione, l’ambiente di lavoro e, ultimo ma non da meno, la sua retribuzione. Il recruiter invece dovrebbe conoscere il/la candidato/a, interessi, formazione, competenze. Di fatto si riduce a una conversazione vuota in cui il primo non dice nulla di sé per paura di essere giudicato male e il secondo non dice nulla dell’azienda o del tipo di mansione per paura di essere scoperto nel suo piano: assumere un jolly tuttofare camuffandolo con un job title accattivante.

La cosa peggiore però è l’assenza completa di un qualsiasi riferimento al tipo di retribuzione. Almeno per il primo incontro, perché i colloqui almeno sono 2. Uno con il recruiter, uno con quello che sarà il diretto responsabile, e a seconda della grandezza dell’azienda, 1 con il responsabile del responsabile, e così via.

Si parla di RAL (Retribuzione annua lorda), di benefit (buoni pasto, pc, telefono), di orario di lavoro, solo all’ultimo passaggio (se se ne parla), prima della firma. Dopo tutti questi colloqui in cui non si è mai parlato di nulla, e in cui ancora non si è capito che tipo di lavoro si andrà a fare, allora si parlerà di retribuzione. Spazio di contrattazione? Zero. La paura di essere scartati per la domanda in più rende silente ogni tipo di richiesta di chiarimento. E in tutti quei colloqui il/la candidato/a, che nessuno è interessato a conoscere realmente, non è riuscito/a nemmeno a dire che è un/una donatore/donatrice AVIS e che avrà bisogno di qualche permesso (retribuito) per donare il sangue. Alla prima richiesta aprirà una crisi diplomatica per poterlo ottenere.

Il/la candidato/a inoltre, per aumentare lo spazio del non detto, avrà passato le due giornate prima del colloquio a cancellare ogni traccia di sé dal web. Avrà reso il profilo facebook privato; controllato di non aver mai scritto nulla di male su LinkedIn; per non parlare di Instagram dove è meglio oscurare tutto per un paio di giorni. Il recruiter avrà riguardato i suoi social e gonfiato ogni tipo di esperienza lavorativa per apparire forte e competente agli occhi del candidato.

Quindi quando il/la candidato/a arriva a casa e gli viene chiesto “Com’è andato il colloquio?”, non sa davvero come rispondere. “E’ andato bene” afferma, e alla seconda domanda “Di cosa avete parlato?” ci ripensa e capisce che di fatto non hanno parlato di nulla. Si sono alternate domande del tipo “Si descriva in tre parole”; “Un suo punto di debolezza?”; “Si sente un leader?”; “Come vede il suo futuro tra 10 anni?”.

Di fatto non si è parlato di nulla, il/la candidato/a ora è nella sua stanza in attesa di un feedback. Guarda LinkedIn e scopre che il recruiter ha sbeffeggiato il suo colloquio. Sul social di scollegamento dal piano di realtà il fautore del colloquio del non detto si diverte prendendosi gioco dei candidati che “sono venuti qui solo per avere il posto, non gli interessava molto della nostra realtà”. Eh no, non tutte le realtà sono interessanti, soprattutto se il recruiter non ha detto nulla di quello spazio e non ha provato minimamente a renderlo tale. E, soprattutto, molti/e candidati/e sono in cerca di un “semplice posto” perché l’importante è riuscire ad avere qualche soldo per potersi dedicare alla propria vita, e in questo non ci si deve necessariamente vedere qualcosa di male.

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