Vestire green si può. Anche nel post Covid. Francesca Boni, pioniera della moda etica, ci dice perché

Francesca chiede subito: «Racconto tutto dall’inizio?». Sarebbe meglio. È una bella storia. Quindi, sì.

Premessa: questo non è il classico incipit del tipo «sarò breve» e invece poi si sa come va a finire. L’inizio di tutto, qui, è solo tre anni fa. Ma ci introduce a dove vogliamo arrivare. E cioè: cosa sappiamo della moda consapevole? Quando facciamo shopping siamo per il “fast” o per la consapevolezza? Subiamo il fascino della maglietta a 5 euro per toglierci lo sfizietto o no? Il lockdown ha cambiato almeno in parte le nostre abitudini in tal senso? E in fatto generazionale, chi è più attento?

Questa storia ha un nome: Il Vestito Verde, un grande database ideato da Francesca Boni, 21 anni, bolognese, studentessa alla Bocconi in Economia per Arte, Cultura e Comunicazione. Gli intenti sono chiari. Con il sottotitolo di “Rendiamo la moda sostenibile facile, semplice e accessibile”, si diffonde l’idea che lo shopping consapevole è piacevole, divertente. Guardando poi nel sito la mappa degli oltre mille negozi fisici che rigettano la logica del “fast fashion”, suddivisa in 7 categorie – usato, vintage, sostenibile, equo e solidale, fatto a mano, made in Italy, affitto – scoprirete un mondo. “Green is the new black”, recita un’altra frase impressa sull’immagine del sito Internet. Francesca e i suoi collaboratori ci credono. A patto che…

Francesca Boni

Ma sentiamo il racconto “tutto dall’inizio”.

«È nato tutto in Canada, dove mi trovavo a studiare, in quarta superiore. Un giorno ho visto il documentario “The True Cost” di Andrew Morgan e sono rimasta sconvolta dalle pessime condizioni dei lavoratori del fast fashion in alcuni Paesi e sull’impatto ambientale dei vestiti prodotti dalle grandi catene di abbigliamento. Non ne sapevo nulla». Approfondisce, Francesca. Scopre che la questione riguarda anche Paesi vicini. Riguarda il Made in Italy. Scopre che operai in India o in Texas muoiono di tumore perché lavorano in piantagioni in cui si usano quantità enormi di pesticidi. Si accorge che il problema è sfaccettato e complesso. Dall’estrazione del materiale all’ultimo bottone da attaccare. «Per mesi non ho comprato nulla. Mi dicevo: i vestiti sono una cosa abbastanza futile, vedere persone che muoiono, sotto fabbriche che crollano per una maglietta brutta a 5 euro che compriamo per soddisfare uno sfizio momentaneo, è una cosa inconcepibile».

Prima o poi però i vestiti servono. È lì che apre un gruppo su Facebook. Il Vestito Verde, appunto. È il 2017 e l’idea è quella di comunicare con altre persone in Italia e fornire consigli e supporti a chi la pensa come lei. All’inizio sono in 30. Oggi oltre 5000. In Italia, all’epoca non c’era nulla in lingua italiana. Francesca è stata la prima. Ma le cose, si sa, su Facebook prima o poi svaniscono. Volano via. Ed è qui che nasce il sito, www.ilvestitoverde.com. Uscito ad aprile 2019, è in continuo aggiornamento. Oltre a raccogliere più di mille negozi, informa su una miriade di buone azioni che si possono compiere. Come scovare i cassonetti gialli per le iniziative delle parrocchie che raccolgono i vestiti a fine vita. O l’indicazione di dove trovare, per dire, i migliori jeans sostenibili. O fare chiarezza su parole come “ecopelliccia” o “ecopelle”, «termini che sviano. Ci sono delle alternative, come la pelliccia biologica Koba sviluppata da Stella McCartney. Ovviamente al momento non è facilmente fruibile ma è molto green. Oppure, meglio tornare alla pelliccia vintage, anche se capisco che molte persone non la vogliano indossare».

Ecco, questo è un altro punto. Stella McCartney sarà anche una stilista fantastica, geniale, ma non proprio alla portata di ogni portafoglio. «In effetti esiste questa concezione della moda consapevole costosa. In realtà avere un approccio di questo tipo ai consumi riduce tantissimo l’acquisto d’impulso, quel “compro, tanto costa poco e mi rende felice per cinque minuti. Invece ho constatato di persona che lo shopping consapevole ti permette di risparmiare a lungo termine. Prendiamo l’opzione “usato”. Bisogna smontare il falso mito che sia sporco, brutto, bucato. Oggi, con il fatto che consumiamo così tanto, si trovano cose quasi nuove. Il 90% del mio armadio è formato da abbigliamento usato. Oltre al fatto che ho pezzi unici e quando esco di casa non rischio di incontrare dieci persone vestite come me, da quando compro usato risparmio. Nelle grandi città se ne trovano di bellissimi. Se penso in quelle in cui vivo di più, a Bologna c’è Reuse with love, delizioso, e a Milano Bivio ha un’economia super-circolare, perché puoi sia comprare che vendere vestiti. Anche l’artigianato italiano è da riscoprire e valorizzare. E poi, magari questo non è il periodo giusto, ma lo swap party è un’altra opzione, peraltro molto divertente».

Pionieristico, un po’ lavoro, un po’ passione. «Non mi pesa affatto impegnarmi in questa attività. Nella community si incontrano persone così interessanti che ho sempre fatto tutto con molta gioia». Come lei, i suoi collaboratori. Tutti studenti, più o meno coetanei, da Antar Corrado, web developer, alle redattrici Aline Albertelli ed Elena Clara Maria Rossetti.

Ma in questo post Covid, siamo tornati migliori come ci sentivamo dire in lockdown? «Non mi sembra che ci siano le intenzioni di limitare le emissioni di CO₂. Quindi, politicamente non vedo cambiamenti. Per quanto riguarda i consumi, ho notato che la gente ha avuto più tempo per fare cose fuori dall’ordinario. Alcune persone hanno iniziato a informarsi su temi finora ignoti. Molte sono entrate nel nostro gruppo. Non credo sia un fenomeno di massa, ma vedo una sensibilità maggiore da parte di alcuni utenti. Tuttavia non credo che la quarantena abbia cambiato particolarmente il nostro atteggiamento. Credo che la sensibilizzazione verso certi argomenti sia abbastanza indipendente da situazioni di emergenza. Conta di più, penso, l’essere costanti, perseveranti, come gocce che martellano ogni singolo momento».

Esiste una questione generazionale? «Difficile dirlo. La mia generazione è cresciuta in un contesto in cui era normale consumare tanto e male (ma avremo imparato da qualcuno…), e uscire da questa mentalità è complesso. Però nello stesso tempo la rifiutiamo. Siamo più apertamente sostenibili, ma i nostri comportamenti non lo sono tanto. D’altra parte le generazioni più mature non hanno molto la coscienza di essere “eco” ma le loro abitudini lo sono. Tendono di più a riparare le cose mentre noi giovani le buttiamo. E hanno maggiore cura per gli oggetti».

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