Siamo tuttə Vanessa, ma anche Gianmarco, Mutan, Lucilla, Simone, Tom… Cosa ci insegna Tokyo 2020

Oggi siamo tuttə Vanessa Ferrari. Argento o non argento. Poteva essere oro. Poteva essere bronzo o legno, come accadde a Rio nel 2016 e a Londra nel 2012. Non stiamo a fare la cronaca degli infortuni, interventi chirurgici, tendine d’Achille, caviglie frantumate, e lo scafoide del piede, e il Covid a marzo. Siamo tuttə Vanessa Ferrari perché per conquistare una medaglia così a trent’anni, alla quarta olimpiade, dicendo semplicemente «devo fare al meglio quello che so fare», coi piedi che fanno piangere dal dolore, ci vuole passione. Ci vuole cuore. «Ci ho provato più volte e il destino sembrava una beffa, gli infortuni mi hanno spezzata. Ma io volevo ancora una volta la possibilità di giocarmi ancora le mie carte e non ho fallito! È storia, una medaglia che fa la storia! Queste sono le OLIMPIADIIIII. Italia c’è la magia nell’aria la sentite?». Ha scritto così. E sì, la sentiamo la magia.

Ieri eravamo tuttə Gianmarco Tamberi e Mutaz Essa Barshim. I due campioni di salto in alto sono volati alla stessa misura, 2,37, e hanno commesso gli stessi errori sul 2,39. Arriva il giudice, chiede se intendono spareggiare con il rischioso “jump-off”, al che il qatariota Barshim domanda se si può patteggiare. Si può. E questo è già “L’Oro dell’Amicizia”.

Gianmarco Tamberi e Mutaz Barshim

Dieci minuti a volte cambiano la storia. Almeno quella dell’atletica italiana. C’è la finale dei 100 metri piani. Vince Marcell Jacobs. E siamo tuttə anche Marcell Jacobs. Vincere quando hai ancora alle orecchie e davanti agli occhi il nome di Usain Bolt, fa venire i brividi. Mario Draghi ha chiamato sia Jacobs che Tamberi. Momenti perfetti. Tutta Italia ha visto e sentito. Rivisto e risentito. Momento più ad hoc non poteva scegliere. Non risulta abbia chiamato Vanessa Ferrari. E nemmeno chi ha vinto nelle gare precedenti. Chissà. Ce ne faremo una ragione.

Non so cosa resterà delle Olimpiadi di Tokyo che all’inizio in pochi volevano (anche noi di Noialtre nutrivamo scetticismo, va detto) e oggi ci appaiono bellissime, stratosferiche. Non lo sappiamo, non perché siano ancora in corso, ma per le emozioni e le iniezioni di bellezza di vita che ci stanno trasmettendo. Mai come in questa edizione gli atleti e le atlete ci hanno lasciato tanti messaggi. Esempi positivi. Valori. Parole semplici e alte che hanno silenziato molta politica politichese. A parte qualche eccezione, chiaro. Attilio Fontana, per dire, scrive che l’uomo più veloce del mondo è di Desenzano del Garda ed «è un destino che la Lombardia faccia correre l’Italia sempre più forte». Sarebbe nato a El Paso da madre italiana e padre texano, ma anche se così non fosse non farebbe ridere lo stesso? Il Leghista Pillon, poi, ha toccato toni surreali usando a fini propagandistici “il bresciano” Marcell Jacobs che ha dedicato la vittoria alla sua famiglia e al “civitanovese” Tamberi perché prima di partire per Tokyo ha chiesto alla fidanzata di sposarlo.

Tom Daley

Del resto, momenti per dire la loro, politici questa risma ne avevano ben pochi, tra Lucilla Boari che dopo la medaglia di bronzo nel tiro con l’arco presenta al mondo Sanne, «la mia ragazza» (a proposito: cinque anni fa Lucilla per un noto quotidiano era parte de “Il trio delle cicciottelle”, questa volta è “una freccia che va dritta nella storia”) e Alice Bellandi, judoka bresciana che ama il judo, la sua fidanzata Chiara e dice che «lo sport è diventato un posto inclusivo». Allora siamo tuttə Alice e anche Lucilla. Siamo Tom Daley, non solo perché è un campione di tuffi, ma fa anche l’uncinetto in tribuna, e Megan Rapinoe, la cestista Sue Bird, la pallavolista Paola Egonu. È l’olimpiade più LGBTQ+ della storia. La più inclusiva. Quella che sbaraglia gli stereotipi.

Come la nuotatrice Erica Sullivan multiculturale e queer. Come Yusra Mardini, nuotatrice siriana sfuggita alla guerra nel suo Paese trainando (a nuoto) il gommone, salvando tutti a bordo. Come le ginnaste tedesche che preferiscono le tute avvolgenti anziché il body sessista, sulla scia dell’esempio delle giocatrici norvegesi di beach handball multate perché hanno giocato con i pantaloncini e non con il bikini. Come Irma Testa, un argento che «fa bene al movimento», perché il pugilato può piacere o non piacere ma non lo fanno solo i maschi. Sono anche le olimpiadi umane. Nei sorrisi di Valentina Rodini e Federica Cesarini, oro storico che ha sorpreso anche loro che sono nella storia nel canottaggio perché prima di loro nessuna mai. Nella maturità rilassata di Federica Pellegrini. Forte lei, forte Simone Biles. E guai a chiamare “debolezza” il suo gesto.

Simone Biles

Nel ritiro dalle gare e nelle rivelazioni sui suoi “demoni” siamo tuttə anche Simone Biles. E Benedetta Pilato. Ha solo 16 anni. Crescerà. Vincerà. O farà quello che vorrà. Queste sono anche le olimpiadi in cui tre spadisti statunitensi sono saliti sulla pedana in mascherina rosa dissociandosi dal quarto compagno accusato di violenze sessuali. E sono anche quelle di Raven Saunders, che sul podio del peso donne ha incrociato le braccia in solidarietà con il movimento LGBTQ+ e i popoli oppressi.

Poi ci sono Fabio Fognini e Novac Djokovic. Il primo si dà del «frocio» perché sbaglia (e scelta più antistorica non poteva fare). Il secondo perde e sfascia la racchetta. Aveva appena fatto la predica a Simone Biles perché «la pressione è un privilegio e io so come gestirla». S’è visto. No, non vorremmo essere loro.

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